Paesaggi ideali e personali

Testo di presentazione della mostra “Sulle mutanti luci”,2022

di Alberto Dambruoso

Ho sempre avuto un debole per la pittura fin da quando ero piccolo. Nell’album fotografico di famiglia (quando ancora si facevano), mi si vede in alcune foto con i pennelli in mano nello studio di un pittore amico di mio padre. L’odore dell’olio, la trementina, le tele sparse nello studio fanno parte della mia iconosfera infantile.
La mia predilezione per la pittura non è mai stata quindi un mistero. Lo dico perché sono uno dei pochi critici, almeno così mi dicono, che difende la pittura. Perché forse non tutti lo sanno, ma negli ultimi anni quest’ultima, ha goduto di alterne fortune. C’è stato un momento, non tanto lontano, in cui sia chi la faceva sia chi la raccontava, non venivano visti di buon occhio. Come se la pittura fosse un medium anacronistico, obsoleto, da riporre in soffitta. La verità è che la pittura è il mezzo di rappresentazione artistica più antico del mondo e non smetterà mai di svolgere la sua funzione principale che è quella di far sognare, meravigliare ma anche far pensare gli osservatori che si trovano davanti ad un dipinto. Come noto fu proprio uno degli artisti italiani più concettuali - Gino De Dominicis - ad affermare che la pittura avrebbe resistito al tempo collocandosi fuori di esso, nell’eternità. La pittura ha infatti la capacità di rinnovarsi continuamente e ciò la rende sempre vitale e quindi attuale. Gli stessi generi della pittura, dal ritratto al paesaggio, continuano nel tempo a trasformarsi.
Lo sa benissimo anche Verena D’Alessandro che, prima ancora di fare della pittura la sua attività principale, è stata docente di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicazione Visiva alla Sapienza e dei temi inerenti la psicologia dell’arte e la percezione visiva ne ha piena conoscenza.
La pittura, come noto, ha qualcosa di magico rispetto ad altre forme di rappresentazione artistica. Attraverso il gesto dell’artista creatore, riesce a raccontare delle storie che nella realtà non esistono ma che diventano verosimili grazie alla sua mano e alla sua immaginazione.
La mostra di cui questo scritto intende rendere testimonianza, vede protagonisti la pittura e uno dei suoi generi prediletti, il paesaggio.
I paesaggi dipinti da Verena D’Alessandro sono di pura invenzione eppure sembrano familiari. Che sia un paesaggio urbano, montagnoso o marino, di fronte ai suoi dipinti si avverte infatti la risonanza di atmosfere in qualche modo conosciute. Questo accade a mio avviso per due motivi: il primo è dovuto al fatto che i suoi sono la summa di tutti i paesaggi reali che ha visto nella sua vita uniti a tutti quelli da lei conosciuti nella storia dell’arte. I paesaggi di Turner, Constable, Friedrich, Sironi, Bartolini sono i riferimenti più puntuali in questa direzione. La congiunzione di entrambe le esperienze ha sviluppato di conseguenza un tipo di paesaggio che è allo stesso tempo personale ed ideale; il secondo motivo è invece da individuarsi nel fatto che tutti i paesaggi hanno qualcosa che li accomuna in ogni parte del mondo. Un tramonto, un tornado, un acquazzone estivo, le prime luci dell’alba sono esperienze che si compiono quotidianamente in tutti i lati del globo. È evidente quindi come questi dipinti riescano ad evocare delle emozioni condivise. Poco importa allora che siano solo frutto della sua fantasia perché ciò che conta è la capacità che essi hanno di suscitare dei sentimenti, di portarci a rivivere dei momenti che fanno parte del nostro bagaglio esperienziale.
Vi è un altro aspetto che emerge dai suoi paesaggi. Si tratta di una mancanza che si nota. Come già nei precedenti anche in questo ciclo, a eccezione di uno o due dipinti, la figura umana è assente. Nei paesaggi realizzati negli anni passati D’Alessandro non sembrava in effetti interessata a raccontare storie che riguardano l’interazione tra l’uomo e l’ambiente quanto piuttosto era intenzionata a portare in primo piano la grandezza della natura oppure al contrario la sua fragilità, questa sì causata dall’uomo. In quest’ultime opere invece sono frequenti le tracce di una presenza umana, per così dire, dietro le quinte: finestre e vetrate illuminate, fari accesi di automobili, cabine telefoniche in cui si scorge la silhouette di una persona, parchi-gioco e giostre sfavillanti, pickup in sosta sotto lampioni che illuminano un parco quasi notturno, e poi aerei in volo, casolari lontani, strade che portano all’orizzonte e oltre.
In quest’ultima serie di dipinti presentati in mostra l’artista ha apportato anche uno studio sugli effetti luministici all’interno del paesaggio, siano essi derivati dalla luce naturale sia da quella artificiale. “Sulle mutanti luci”, titolo della mostra, indica appunto questa nuova ricerca. Bagliori, squarci nel cielo, lampioni illuminati, le prime luci dell’alba, intendono porre in primo piano la funzione della luce in grado da una parte di illuminare a giorno una buia notte o al contrario rendere chiaroscuro il pieno giorno.
Il risultato finale è quello di una mostra di grande qualità formale sia per il tipo di pittura, la quale anche se eseguita tutta di getto senza l’ausilio di alcun disegno preparatorio, risulta essere di grande definizione e con una giustezza oltreché gradevolezza degli impasti cromatici, sia per la varietà dei differenti paesaggi proposti, ognuno diverso dall’altro, e non credo di sbagliare affermando anche, uno più bello dell’altro.

Alberto Dambruoso 2022.

 

Le atmosfere arcane nelle opere recenti

Testo tratto dalla monografia “Oltre il paesaggio/Beyond the Landscape”,2022

di Alberto Dambruoso

Verena D’Alessandro è una pittrice che da vent’anni ha incentrato la sua ricerca sulla rappresentazione del paesaggio. Lo ha affrontato centinaia di volte, in quella che potremmo definire una ripetizione differente di uno stesso soggetto, come se l’artista fosse alla ricerca di un particolare tipo di paesaggio, di natura squisitamente ideale.
Ciò che prevaleva nei suoi dipinti, fino al penultimo ciclo di opere, era la centralità del paesaggio, il quale non prevedeva, se non marginalmente, la presenza umana. Quelle rare volte che quest’ultima si manifestava, lo faceva in modo quasi impercettibile, con sue esili e lontane tracce. L’interesse era di fatto, quasi esclusivamente rivolto alla raffigurazione di una natura grandiosa, a volte panica, con delle reminescenze romantiche che, in qualche modo, potevano far ricordare i dipinti di Turner, Constable o di Friedrich.
Nei paesaggi dipinti in quest’ultima serie di opere, la natura ha subìto una trasformazione: essa si è antropizzata. In tutti i dipinti infatti, anche se non le vediamo quasi mai in primo piano, possiamo percepire delle presenze umane. Una vitalità variamente diffusa si intuisce dalle finestre e dalle vetrate illuminate delle case, dai fanali accesi di automobili, o dai parchi divertimenti con giostre sfavillanti, ma anche dalle cabine telefoniche in cui si può scorgere il profilo di una persona o dai pickup in sosta sotto i lampioni, dai fari delle macchine che solcano le montagne durante la notte o alle prime luci dell’alba o infine dalle scie lasciate dagli aerei in volo.
Si potrebbe affermare, dunque, che il paesaggio rappresentato in questo ultimo ciclo di opere, non è più protagonista assoluto come in passato e che, una certa importanza sia stata riservata anche alla presenza umana.
Ciò che invece resta un elemento centrale nella pittura di Verena D’Alessandro è la luce, sia essa di origine naturale o artificiale.
In questa ultima serie, il contrasto chiaroscurale tra la luce diurna e quella notturna è una costante che possiamo cogliere in tutte le opere. La si potrebbe definire una “twin-light”, ovvero una luce gemella, come quella magistralmente rappresentata da Magritte in opere quali “Impero della luce”. Si tratta di un confine sottilissimo a livello percettivo che fa vacillare le nostre certezze visuali: si sta facendo giorno oppure notte?
Ciò che scaturisce da queste opere è una sensazione prossima alla dimensione onirica, di sospensione temporale. A tal proposito, è proprio l’artista a definire il motivo per il quale sente la necessità di dipingere queste atmosfere trasognanti: Come se la fuggevolezza di queste atmosfere e la loro evanescenza richiedesse di essere fissata su una tela per prolungare la magia di questi loro attimi.
Gli stessi titoli dati alle opere hanno l’obiettivo di instillare ancor di più nello spettatore questa sensazione di stupore frammista al mistero. In tutti i dipinti aleggia una dimensione metafisica e, se vedessimo con un solo colpo d’occhio tutte le opere che fanno parte di questo ciclo, potremmo ritrovarci come all’interno di un film le cui varie sequenze sono costellate da tanti momenti di suspense. E alla filmografia di Wim Wenders, soprattutto in “L’amico americano” ma anche a “Blow up” di Michelangelo Antonioni, s’ispirano queste opere, senza dimenticare anche il decisivo influsso esercitato da un pittore come Edward Hopper le cui opere sono ricche di quelle atmosfere care a Verena D’Alessandro (vedasi in particolare il dipinto “La casa nel crepuscolo o “Camere per turisti”). Altre influenze a livello pittorico sono ravvisabili in alcuni pittori di paesaggio come i norvegesi Peter Balke e Harold Sohlberg. Allo stesso tempo queste opere evidenziano un taglio fotografico che è da porre in relazione con l’interesse che fin da giovane Verena D’Alessandro ha avuto per la fotografia. In questa direzione, le immagini a colori di Ernst Haas e di Jay Meisel, hanno rappresentato certamente dei riferimenti significativi nell’elaborazione di queste ultime opere.
Soffermiamoci ora su qualcuna di queste opere nel tentativo di offrire al lettore delle chiav i nterpretative e in generale alcune letture critiche. Prima d’iniziare, però, vorrei riportare questa frase dell’artista che ritengo “illuminante” ai fini di una maggiore comprensione di questo ciclo di dipinti: In questi lavori è per lpiù l’interrogativo per ciò che succede fuoricampo a creare in chi guarda l’opera una strisciante inquietudine e una sensazione di sospensione.
La strana sosta nel parco” è un dipinto decisamente enigmatico: sul calare della sera, delle luci provenienti da dei lampioni, illuminano delle aree circoscritte di un parco urbano dove si trova parcheggiato un pick-up giallo. Tutto intorno regna sovrano il buio mentre all’orizzonte spuntano le prime luci dell’alba. La prima domanda che viene da porsi è cosa ci fa lì parcheggiata un’auto apparentemente vuota? Qualcuno è uscito dalla macchina e si è allontanato per nascondere qualcosa? Oppure c’è qualcuno che è nascosto dentro la macchina? Chi e cosa poi vogliono illuminare quei piccoli fari sepolti fra i cespugli? L’ambientazione, con la sua nota di mistero, potrebbe forse condurre il ricordo ad una delle scene centrali di “Blow–up” di Antonioni.
Nell’opera dal titolo “Una sera in apparenza tranquilla” si scorge un cottage isolato situato a ridosso di una spiaggia sulle cui rive si frangono lente, le onde lucenti del mare. Le luci che fuoriescono dalle vetrate del cottage lasciano appena intravedere all’interno qualche accenno di arredo e un profilo di una persona. Ma la scena che sembrerebbe di primo acchito così placida lo è poi veramente oppure dietro questa tranquillità si nasconde qualche misfatto?
Nel dipinto “Stupita contemplazione” notiamo un ragazzo con un cane di grossa taglia, usciti probabilmente da una casa che spunta tra gli alberi e di cui notiamo le luci che si fanno largo tra l’oscurità del bosco, entrambi in contemplazione di un cielo boreale magico ed arcano. In lontananza si scorge solamente una sottile striscia di strada e il barbaglio delicato di un villaggio. Cos’è che ha attirato la loro attenzione? Una stella cadente, un oggetto volante non identificato, o cos’altro ancora? Le domande, anche in questo caso, non trovano delle risposte.
In la “Strada senza fine” un’automobile di cui si vedono solo i fari che illuminano il tragitto, si accinge a percorrere una strada che si perde all’orizzonte. Un cartello sulla destra avverte dell’attraversamento di renne. In questo dipinto, in cui per altro noto delle stringenti affinità con alcune opere “on the road” di David Hockney sia per il taglio compositivo sia per il tipo di cartellonistica utilizzata, possono immedesimarsi tutti coloro che hanno guidato in zone desolate sul calar della sera. Una certa inquietudine inizia a serpeggiare quando attraversiamo da soli zone non coperte dalla rete telefonica; può subentrare la paura di forare o si teme la stanchezza che sta per sopraggiungere.Un viaggio, anche in questo caso, che solo all’apparenza sembra essere tranquillo.
In definitiva le scene descritte, potrebbero essere il risultato di un adattamento pittorico di un film noir ma anche di un libro giallo. Ogni dipinto rappresenta l’episodio di una storia dalle tinte fosche anche se rischiarata da una luce vividissima, che probabilmente ha il ruolo di rendere gli scenari ancor più misteriosi ed enigmatici.

Alberto Dambruoso 2022.

 

Scenari ecologici in grande rilievo semantico

Dal catalogo “Fragili Equilibri”(2018)

Presentazione critica di Marcello Carlino

La poetica implicita qui è nel segno dell’indefinito. Strade che si perdono rastremandosi in linee sottili protese verso l’orizzonte, valli e convalli che si stringono e si allargano profilando scorci e schiudendo slarghi all’immaginazione, montagne che misurano da giganti la statura infinitesima di uomini soli in viandanza e fanno di aeroplani giocattoli minuscoli, pareti di roccia che da tanta parte escludono lo sguardo, accostamenti per sfumature di colori e variazioni su base monocromatica che sgranano l’atmosfera e sbuffano vapori, sconfinate praterie di ghiaccio, città arroccate su di un colle come fortezze nelle figurazioni del fantastico: è l’indeterminato la costante e, sebbene non vi siano riferimenti puntuali e non si diano tracce riconoscibili, non si sbaglierebbe ad evocare Friedrich e il suo personaggio affacciato da un sperone su di un oceano di nebbia. Né si sbaglierebbe a rammentare le nevi sciorinate a distesa nelle tele che amano il bianco di Segantini.
Partendo idealmente dalla rêverie romantica e dal simbolismo declinato nella temperie divisionista, Verena D’Alessandro muove la sua pittura nei pressi dell’invisibile per subito prestarla ad una ricerca che via via, per stesure e riprese di colore oppure per contrappunto di bianchi e di neri, in ascolto delle sperimentazioni d’avanguardia, sfuma e sconnette la definizione lineare e apposta parvenze di forme aperte negli immediati dintorni dell’informale.
La solitudine dei paesaggi montani e la destituzione del personaggio-uomo, ora pressoché impercettibile ora dichiarato assente, sono tali che aprono scenari ecologici e li stagliano in grande rilievo semantico. La natura trionfa nella purezza impenetrabile, inscalfibile del suo manifestarsi; l’assoluto suo occupare la scena disarma e dichiara la sventatezza morbigena dell’umana compagnia: il tempo è sospeso e l’eternità è parlata da un fermo dell’immagine, da un blocco dell’azione, da una epoké metafisica che toglie il sonoro, così disdicendolo, al tramestio entropico di vite contingenti.
L’indefinito, nondimeno, trasporta polisenso. E lo spazio della montagna, allora, acquista il valore liminare di un luogo di confine. Il confine tra un di qua e un di là della storia in una atmosfera visibilmente carica di silenzio.
Un prima della storia, che sembra precedere la comparsa dell’umanità e che può conferirsi in predicato di un nuovo cominciamento, e una finis historiae in cui tutto è postumo e le nevi perenni stanno per tacitare per sempre improvvide, menzognere civilizzazioni: lungo il confine la pittura di Verena D’Alessandro batte il tema dell’enigma e il tema dell’attesa, il tema della piccolezza dell’esistere comune e il tema della grandiosità di una natura che resiste, il tema di una interiorità pensosa e assorta e il tema di una esteriorità che sgomenta, il tema di una vita potenziale rinnovata in sincrono con il tema della morte.
E batte e ribatte sulle note del polisenso con lucidità visionaria, con maestosa severità, con coerenza asciutta e perseverante e priva di enfasi, in un grande stile che ha pure valore di memento e volge appello al pensiero e alle coscienze con discrezione austera, senza fare sconti.

Marcello Carlino 2018.

 

La natura del silenzio

Dal catalogo “Nel silenzio dell’immagine“(2016).

Presentazione critica di Giorgio Agnisola.

Benché i soggetti più frequenti della pittura di Verena D'Alessandro siano contesti urbani o naturali (periferie, paesaggi, vedute...) non è la realtà fisica che l'artista dipinge ma il suo doppio metaforico filtrato da un avvertimento d'anima. Certo, in esso la realtà fisica non è totalmente assente. Lo sguardo si nutre anche di un vedere analitico, non semplicemente immaginario o immaginato. E tuttavia l'arte di D'Alessandro si chiarisce in profondità, al di là della visione e dello stesso soggetto, investe le ragioni dell'esistere. È a questo livello che si intuisce il punto di equilibrio della sua ricerca visiva, intensa, consapevole, leggibile soprettutto nella produzione dell'ultimo decennio.
In precedenza la sua arte per quanto suggestiva era stata di taglio differente. L'artista tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila aveva realizzato opere quasi monocrome con fantomatiche figure in primo piano: figure silenziose, improbabili, come fantasmi in un contesto di forte e allucinata surrealità. In seguito l'artista aveva cambiato sostanzialmente registro.
Le opere del 2007 coglievano la Metamorfosi urbana con un occhio che si spostava dal generale al particolare: una ricognizione che muoveva dall'alto per cogliere frontalmente il silenzio penoso e pensoso di una vuota civiltà industriale. Al primo sguardo sembrerebbe di cogliere nelle opere di quegli anni un rimando alle periferie di Sironi, a certi scorci cittadini di Hopper. Ma nelle tele dell'artista la sensibilità è differente. Se il clima in parte è quello, di solitudine, di silenzio inquietante e talora soffocante (che il colore sottolinea, vertendo sovente all'ocra e al bruno, accesi da una polvere di luce meridiana) nei dipinti di D'Alessandro c'é un che di delicatamente introverso e sensibilmente partecipe. Non c'è in particolare quella fissità e quel distacco che dentro la drammatica lettura del presente caratterizza sovente certa arte di derivazione realista, americana e in parte europea. Qui l'esistenza è colta sensibilmente nel suo riflesso inconscio, ribaltato in uno sguardo apprensivo e tuttavia trattenuto, mediato tra il vedere e il sentire.
L'uomo in genere è assente, si direbbe perduto. In certi paesaggi sembra persino di cogliere quella suggestione lievemente apocalittica e paradossale che Morselli seppe delineare nel suo famoso Dissipatio HG. In D'alessandro la realtà non è surrealtà e neppure metafisica, è semplicemente realtà indagata nel suo drammatico confine visivo, nel silenzio ed oltre, sulla linea di separazione tra il possibile e l'impossibile. È l'occhio spirituale che nell'artista vede oltre, immagina, scruta, indaga.
Gli sguardi sono tesi, prospetticamente riversati sulla tela in larghi orizzonti, in fughe pronunciate. Anche gli specifici contesti hanno un significato: strade a più corsie che puntano centralmente all'orizzonte, viadotti, binari ferroviari. Il retaggio di una tensione informale, leggibile soprattutto in una lettura ravvicinata, accentua questa sensazione di metafora riflessa nel pensiero interiore.
Qualcosa cambia nella ricerca di D'Alessandro sulla fine dello scorso decennio. L'osservazione si porta sul mondo naturale. Prende il sopravvento il paesaggio. A cosa corrisponda questo rinnovamneto dello sguardo è difficile da dire. Potrebbe interpretarsi come tuffo all'esterno, bisogno d'aria, di respiro. Ciò che cambia è la prospettiva psicologica. Ora i luoghi di D'Alessandro sono prevalentemente campi, pianure, rilievi, vedute aeree. Sembra esservi nelle tele come un'avvertimento dell'oltre, del mistero che veleggia come aura silenziosa e solenne nello spazio. La natura è sentita come territorio sconosciuto in cui leggere i segni dell'infinito. Persino i pochi scorci di città ancora presenti sono caratterizzati da questo misterioso avvertimento. Indagato tuttavia da lontano. Come in Ancora tutto fermo, un dipinto che rappresenta un immaginario contesto urbano in cui campagna innevata e scorcio metropolitano coesistono, incredibilmente. Alcune vedute sono dall'alto, come riprese dal finestrino d'un aeroplano.
Talora l'avvertimento acquista un tono drammatico, sembra muovere da un orizzonte inquieto; più spesso si distende in sguardi apparentemente tranquilli in cui il sentimento prende corpo e acquista senso di poesia, come in Oltre i campi di tabacco. E tuttavia il paesaggio non è mai totalmente paesaggio. Il gioco di una sottile sperimentazione, il riflesso di una notazione puramente percettiva, l'innesto di riferimenti che vorremmo dire più tecnici sono sempre presenti.
Tutto ciò si caratterizza nelle opere del 2012. Quel silenzio avvertito dall'alto ora "plana", si posa quasi radente al suolo, si apre a vedute prospettiche di luoghi innevati in cui l'orizzonte si fa soffice, appena distinguibile, una sorta di polvere vianca e silenziosa che permea lo spazio. Qui c'è lo stupore, c'è la vastità. La presenza dell'uomo è supposta e distante.
È nel 2014 che l'arte di Verena sembra subire un'ulteriore svolta. Ora la tensione visiva cattura precisi riferimenti spaziali, si confronta con la natura. Non è più solo lo sguardo stupito, l'artista cerca una misura di sé in quel contesto che prende l'anima e preme su di essa. Con una precisa e studiata tensione prospettica individua particolari che innestano l'atmosfera ancora metaforica ma anche visiva in un termine di confronto che in qualche misura azzera tutto il precedente sentire e in una visione più concreta rimodella il pensiero. La natura è ancora mistero, ma ora è sopravvenuta l'osservazione, più esattamente la ricerca (e l'attesa) di sé oltre che della realtà. Come nell'opera in cui un osservatore pensoso in primo piano - che singolarmante ricorda uno dei viandanti di Friedrich - guarda nella distesa innevata seguendo il volo puntiforme di un misterioso aeromobile...

Giorgio Agnisola 2016.


  

 

Nel silenzio dell’immagine

Dal catalogo “Nel silenzio dell’immagine“(2016).

Presentazione critica di Marcello Carlino.

L'arte della fotografia si coglie come in filigrana, lasciando di sé, e dei suoi repertori, tracce e profili e nuances; la definizione delle immagini, frattanto, si perde; e la vivezza dei colori si spege, finché tele e cartoncini tendono al monocromo, si fanno monocromi.
È il bianco a dominare, pur quando affiorano, e si conquistano un piccolo spazio, il bruno delle terre o il giallo, smorzato e sgranato, di un crepuscolo del mattino o della sera (un giallo che talvolta, comunque di rado, accade che si espanda e riempia il paesaggio, quasi virandolo al seppia).
Un effetto-nebbia così si produce e trasferisce un sentore di indeterminatezza -  che è traino sinestetico di morbidezza e di avvolgenza, tre sbuffi di sfumato - sul paesaggio rappresentato; e, per ciò stesso, si allacciano corrispondenze ideali con le suggestioni di provenienza dal romanticismo e dal simbolismo europei:  la pittura di Verena D’Alessandro sembra porsi  all’ascolto di Turner e di Fridrich, delle distese come di soffici nubi o di una bruma che si tesse da coltre sotto lo sperone di roccia da cui si guarda, ovvero del mare in tempesta che, sferzato dal vento, spruzza e nebulizza le sue acque.
E un effetto-neve, a sua volta, impronta molti dei percorsi segnati dagli oli, spandendosi su catene di monti, su pareti di ghiaccio, su torrenti che sgorgano da fonti a grandi altezze, da lontane risorgive: se si debbono rinvenire correlazioni intertestuali, a me pare imprescindibile, naturale, il rimando alle tematiche e agli habitat, ai bianchi che si impongono, e non vogliono eccezioni, di Segantini.
Il bianco è, nell'immaginario colletivo, il simbolo, l'archetipo della purezza; e coincide, immancabilmente con la ricerca, con la nostalgia (per il futuro) dell'assolutezza incontaminata dell'ambiente e, nell'ambiente tornato a vera vita, di una condizione dell'esserci rivalorizzata. Il bianco è colore trasfigurato in luce: stazione di transito verso il sogno o verso una possibile altra realtà. Il bianco è assenza di ciò che ha gli stigmi e i focolai nocenti del troppo umano.
Il bianco s'accompagna a un che di mistico ed è voltura in spazio del silenzio. Le folate di nebbia, nel bianco, sono il respiro dell'idefinito, che le antiche teorie riconducevano, quale nucleo di germinazione, al poetico.
Non a caso, nelle opere di Verena D'alessandro, tutto appare fermo in un tempo sospeso; e le città e le infrastrutture urbane appaiono deserte e remote, segni lontani adagiati su colli; e quando non si scorge una tantum, rapito dagli orizzonti sterminati che gli sono innanzi, e quando non lo si immagina piccolo piccolo, in un silente abitacolo di volo nel quale lo si può supporre rinchiuso, l'uomo è assente e la sua assenza rimuove ogni antropocentrismo, aprendo il contesto pertanto - il paradosso è solo apparente - ai principi e alle qualità di un nuovo umanesimo.
Il contingente si affaccia così sull'eterno; mentre un paesaggio primevo, per effetto della assolutezza liberatoria del bianco, diviene le stessa cosa di un futuro pensato dall'utopia.
In bilico tra una figurazione residuale, a metà postuma a metà incipitaria - resa per cenni di stilizzazione geometrica e di linearismo -, e l'informale, che reca il senso dell'origine e che è pure un approdo del libero flusso delle emozioni e del pensiero, la pittura di Verena D'Alessandro appare l'analogo di una laguna: come una terra che resta, che è memoria di sé e che pure, dentro il monocromo dell'atmosfera, si rende altro da sé e accoglie e si mescola all'acqua che fa illimiti gli spazi.

Marcello Carlino 2016.


  

 

Sulla pittura di Verena D'Alessandro

Dal catalogo “Juste une rêverie”(2016).

Presentazione critica di Paolo Aita.

Nelle opere di Verena D'Alessandro il soggetto fuori campo guarda il paesaggio da lontano mentre compie la Winterreise, il viaggio d'inverno, il viaggio nell'inospitale di Shubert. È una figura della modernità perché è vittima dell'inquetudine. Il panorama intorno è calmo, somiglia allo sfondo di qualche pensoso e solitario personaggio di Friedrich. I rimandi vanno infatti verso autori nordici, che, più di altri, hanno subito il fascino del viaggiatore che viene da lontano, e consuma l'angoscia dell'estraneità (pensiamo all'Anatra selvatica di Ibsen, all'Olandese  volante di Wagner, a Wim Wenders di Alice nella città, agli inqueti personaggi di Peter Handke, a degli Hopper disabitati). Essi si trovano esattamente nei luoghi di Verena D'alessandro. Luoghi senza nome, non rubricati, perché sono i luoghi in cui la societas non giunge.
Nei dipinti di questo ciclo pittorico recente il dialogo col paesaggio inizia dalla linea dell'orizzonte, che si trova spesso in una posizione inferiore rispetto l'ipotetico soggetto che guarda. Ciò è indice di un atteggiamento di tipo cognitivo, e sottopone il paesaggio a una specie di stratigrafia. La pittura di Verena D'Alessandro testimonia un naturalismo istintivo e verace, che si articola nella resa di texture materiche ogni volta differenti. Il segno può quasi aspirare alla trasparenza, e rivelare le trame del sottostante tessuto della tela, come può addensarsi fino a dare l'impressione di una materia quasi informale. I riferimenti potrebbero essere numerosi: non è importante solo la dimensione visiva del quadro, ma occorre che per suo tramite noi arricchiamo i dati del nostro sapere, nella linea di artisti come Permeke e De Staël, più che di artisti italiani. Soprattutto occorre notare la disinvoltura nella stesura pittorica, come la possiamo vedere in tante opere di artsti degli anni '60. In queste il realismo nega il sublime, che si trova ancora in Verena D'Alessandro, che usa ogni messo espressivo consentito dalla pasta cromatica. Questo profondo riferimento al sublime vanifica tante distinzioni, come quella tra astratto e figurativo. In un'opera come Paesaggio1 siamo totalmente in un territorio astratto, ma ciò non è vissuto come una conquista, bensì come il compimento di un programma culturale. Questa prospettiva ci riporta alle riflessioni di Merleau-Ponty su Cézanne, e ricordo che in questa dimensione di ricostruzione visiva dei dati mentali si trova anche Van de Velde, Feininger.
Negli anni i paesaggi dipinti da Verena D'Alessandro hanno avuto un destino di essenzialità progressiva, per cui gli originari ambienti urbani sono stati sostituiti da paesaggi invernali, forse in un ipotetico tentativo di enciclopedia dei suoi spazi tipici, ovvero porti, città, borghi e paesaggi innevati. Diminuendo il riferimento alla realtà, in un bellissimo processo di spoliazione, il tratto e la materia sono diventati sempre più liberi. La dimensione cognitiva di questa pittura si è spostata dall'essenzialità (notevole già nelle precedenti opere, ma legata a principi di presenza o assenza dell'uomo) a una ricerca sulla materia; e dalla tematica urbana ci si è spostati verso una ricerca sull'elementare e sull'originario, dove gli elementi costitutivi del paesaggio sono esplicitati con maggiore forza. Uguale destino ha conosciuto il colore, che si allontana dalle vicende degli uomini e della natura, procedendo invece verso un contrasto di elementi basici sempre più distanti.
In effetti nella sua pittura direi che Verena D'Alessandro ha da sempre cercato il punto ideale tra abstraktion e einfühlung come direbbe Worringer, tra osservazione e coinvolgimento, tra ragione e sentimento. Con grande metodo.

Paolo Aita 2016.


  

 

VERENA D’ALESSANDRO: OCCULTATO DAL GENERE, IL GESTO

Dal catalogo "Percorsi. Opere scelte 2005-2012".

Presentazione critica di Andrea Romoli Barberini.

La pittura come disciplina d’elezione, il paesaggio come genere al centro della propria indagine artistica possono rappresentare, per quanto sommariamente e non senza insidie, due preziose coordinate in grado di suggerire l’appartenenza a un luogo ideale e sempre meno frequentato, ma forse, proprio per ciò, ben delineato nella sua demarcazione del pensare e del fare arte. E’ un luogo minoritario e virtuoso, quello evocato dalla scelta disciplinare e di genere di Verena D’Alessandro, che rinvia a una concezione dell’arte per molti versi severa, dai tempi lunghi e senza “sconti di pena” mutuabili dalla sfera tecnologica, in cui la mano e la mente, l’agire e il riflettere, si decantano, diventano esperienza, convergono e si fondono fino a raggiungere quella sorta di reciproca determinazione che è l’opera. Fedele da diversi anni al genere del paesaggio nelle sue diverse declinazioni, la D’Alessandro ha recentemente spostato il suo punto di osservazione dalla città alle sue propaggini più estreme, quelle che, per così dire, ne annunciano la presenza con viadotti e snodi stradali, ferrovie, periferiche zone industriali, fino a raggiungere, e indagare pittoricamente, quelle aree in cui l’umana concentrazione sfuma per farsi sporadica: la campagna, la montagna. E’ come se il suo sguardo d’artista avesse avvertito, d’un tratto, il bisogno di misurarsi, quindi pensare, riflettere e generare qualcosa di più intimo, quieto e, per certi versi sacro e solenne, e di rispondere al bisogno di un silenzio di matrice agreste o montana. Un silenzio, quest’ultimo, nuovo e diverso da quello carico di tensione dei suoi paesaggi metropolitani d’invenzione, luoghi senza una precisa identità, tanto anonimi quanto familiari, raccontati con sobria efficacia e pochi, plumbei colori. Di queste visioni metropolitane, non a torto definite “moderni capricci” (R. Savi) - in cui la città, per quanto tenuta come a distanza di sicurezza rispetto al primo piano, è comunque protagonista, anche se colta nel torpore dell’alba e, perciò, deserta, quasi inanimata -, le opere più recenti, quasi degli omaggi alla natura, che esaltano monti e valli, fiumi e colline, conservano, e forse enfatizzato, il piacere del vedere largo, dell’ampiezza di campo, degli orizzonti lontani. Caratteristica, questa, che, indistintamente, tanto nei temi suburbani, quanto in quelli extraurbani, scaturisce da una prassi esecutiva dominata dalla gestualità, la cui rilevanza va al di là del risultato visivo, perché evidenzia, dei manufatti e dell’artista, pur nell’autonomia delle soluzioni, l’appartenenza a un’epoca precisa e, con essa, per estensione, prossimità e distanze rispetto a quanti hanno affrontato lo stesso genere nel passato “recente”. Un’epoca consapevole dell’importanza della grande stagione dell’Informale, pertanto necessariamente ad essa successiva, che di quell’articolata esperienza sembra voler celare, nella referenzialità dell’immagine, un insospettabile vincolo di discendenza. Il tema paesaggistico, quindi, urbano o extraurbano che sia, affrancato com’è dagli obblighi della rappresentazione fedele di luoghi realmente esistenti, può generarsi liberamente da una gestualità fluida, dissimulata dietro successivi interventi che, giocando con le analogie formali suggerite della pittura stessa, dirottano e riportano nei territori della referenzialità e del verosimile il segno e la macchia, la materia e il colore per tradurli e ricondurli nelle forme e nelle strutture riconoscibili di palazzi, cisterne, gru, campi coltivati, corsi d’acqua e vette innevate. E’ per questo che le periferie di questa artista presentano una maggiore prossimità con quelle di Vespignani, di un realismo che pure seppe accogliere certe suggestioni provenienti dall’informale di matrice lirica, piuttosto che con quelle di Sironi, di natura ancora sostanzialmente metafisica. Figli illegittimi dell’Informale, questi lavori della D’Alessandro seducono per quella particolare capacità, ereditata geneticamente, di raccontare l’umano sentire, occultando l’uomo e negando il racconto.

Andrea Romoli Barberini 2013 .


  

 

GLI "ALTRI SGUARDI" DI VERENA D'ALESSANDRO

Presentazione critica di Robertomaria Siena.

Il pittore prende un modello come rappresentativo della leggenda" P. Gauguin.

La sottocultura postmoderna che ci schiaccia e ci umilia è "empirista"; ovviamente non ha niente a che vedere con l' "empirismo storico", con la splendida stagione di Locke e di tutti coloro che si sono messi al seguito del grande filosofo inglese. Ora l'intera opera pittorica di Verena D'Alessandro si pone come un "grande rifiuto" nei confronti dell'egemonia sottoculturale; in nome di quali valori si presenta la filosofia dell'artista? La sottocultura spinge in direzione di non guardare oltre il proprio naso; a questa "cattiva empiria" aggiunge l' "estetica del trash". A tutto questo l'artista oppone la sua ricerca dell'infinito; coltiva cioè uno sguardo lungo, un desiderio di superare l' hic et nunc per veleggiare verso la profondità. Infatti l'infinito è la stessa cosa della profondità e la profondità coincide perfettamente con l'infinito. Da qui i paesaggi che la D'Alessandro fa scorrere dinanzi ai nostri occhi; aggiungasi a ciò un secondo dato assolutamente centrale. Nella misura in cui si ribella all'empirismo di basso conio, rilancia il visionarismo. La pittrice non chiede alla natura di posare per lei; tutto è invece figlio della sua grande vis immaginativa. La pensa, infatti, come Baudelaire; l'immaginazione è la "regina delle facoltà", e questa "regina" è una domina incontrastata che possiede l'artista nella sua interezza. Immediatamente dopo sorge un'altra domanda: i paesaggi della D'Alessandro sono metafisici? Quello che si nota è l'assenza plateale della figura umana; la nostra parla spesso di città, ma queste sembrano non conoscere l'uomo, l'ente che le ha costruite. Nonostante ciò, Verena D'Alessandro non segue le orme di Giorgio De Chirico; lo dimostra il fatto che i luoghi che racconta non sono liberi dall'atmosfera. Torniamo all'assenza umana. Come si spiega? Gli uomini sono enti finiti; ora la D'Alessandro è "pittrice dell'infinito". Va ricondotta all'interno di Hegel? Assolutamente no: sappiamo bene cosa il grande filosofo pensasse della natura. Questa sarebbe "l'idea nella forma dell'essere altro", e come tale risulterebbe essenzialmente esteriorità e decadimento; non è questa la posizione della nostra dato che si occupa intensamente del paesaggio e quindi lo ama e non lo considera uno "scadimento dell'idea". Abbiamo anche osservato che la natura della pittrice è figlia diretta della sua potente vis immaginativa; da questo punto di vista possiamo verificare come la D'Alessandro si pone all'interno del dibattito artistico contemporaneo. Arthur Danto sostiene che la Pop Art ha compiuto un atto rivoluzionario: confondere l'oggetto d'arte con l'oggetto comune. E' vero, ma, aggiungiamo noi, così facendo ha rimesso paradossalmente in moto il realismo sconfitto dalle Avanguardie Storiche. L'artista rifiuta le proposte avanzate dalla Pop, sia perché oppone al realismo il visionarismo, sia perché non intende far scendere l'arte sul terreno del quotidiano. Da qui la sicura e certa riaffermazione del primato della pittura ; il quadro si conferma come una "finestra sull'alterità", uno spazio insostituibile per mettere in moto quella creatività che passa dall'artista al fruitore e che quindi lo investe con tutta la sua potenza. Il risultato è che veniamo sottratti al quotidiano, all'universo della "chiacchiera" (per dirla con Martin Heidegger) e veniamo sollecitati per quanto riguarda la nostra mente. Ora il "mentalismo" elaborato dall'artista si pone agli antipodi di quel "concettualismo freddo" che segna gran parte delle Neoavanguardie. Il "mentalismo" della nostra è "caldo", caldo perché, lo ripetiamo, è consegnato nelle mani scottanti della pittura. Dunque, dinanzi ai lavori di Verena D'Alessandro siamo invitati a pensare; a pensare in modo ricco, articolato e complesso. Il che significa, molto semplicemente, che veniamo esaltati nel nostro specifico di esseri umani.

Robertomaria Siena .


  

 

POST-AVANGUARDIA

Dal volume POST-AVANGUARDIA. Presentazione critica di Paolo Levi.

I lavori di Verena D'Alessandro descrivono le inquietanti inquadrature di un paesaggio urbano contemporaneo. L'artista presenta scorci delle aree metropolitane più problematiche dal punto di vista del degrado: periferie plumbee dalle tonalità fosche, scenari attraversati da rotaie e tralicci elettrici, popolati da viadotti, gru e complessi industriali. Le immagini che sortiscono dalla sua sapiente esecuzione segnica e cromatica, sono costruite su un impianto solo apparentemente realistico, che si svincola dall'attinenza a una visione oggettiva, per dare spazio a una visionarieta’ densa di avvertimenti. Avendo perso il suo statuto di habitat ,la città - per altro spesso riconoscibile in certi scorci famigliari - si rivela come un non-luogo ostile, come utopia negativa. Le tonalita’ dominanti sono grigi brumosi, neri profondi appena attraversati da tratti bianchi e ocra, dove i chiarori non annunciano luce ma solo freddo notturno. L'artista stende il colore con tratti decisi, dando vita a calibrati giochi di sfumature, di richiami tra i riflessi di cielo e di terra, tra le densita’ e le dissolvenze, tra le forme geometriche degli edifici e gli spazi vuoti di una superficie urbana desolata e desertificata come dopo una catastrofe apocalittica. D'Alessandro porge allo sguardo una realtà straniata comunicando il senso di un'attesa, di una sospensione temporale che ha congelato la vita umana nei silenzio e nell'assenza. Strade e binari cittadini appaiono come inutili orpelli che ricordano i segni residuali e disperanti di un universo concentrazionario. Sono con evidenza emozioni profonde quelle che hanno ispirato questa pittura, e soprattutto interrogativi monologanti, senza risposte, se non la presa d'atto dell'incomunicabilità e della solitudine irrimediabile che comporta il nostro vivere collettivo

Paolo Levi .


  

 

Suburban Landscapes

Dal catalogo UP/DOWN/TOWN. Presentazione critica di Virginio Patarini.

C'è un che d'inquieto che serpeggia nei quadri di Verena D'Alessandro: un'atmosfera plumbea incombe sui paesaggi dipinti dall'artista romana, sia che si tratti di visioni urbane dove una strada ferrata apre in due schiere di anonimi palazzi e li taglia ferocemente con la sua linea d'ombra, o che si tratti di scorci di campagna dove sbucano dall'erba gialla grandi fienili all'americana e silos in primo piano. Un'aria come di tempesta, di sciagura imminente, aleggia in questi paesaggi desolatamente vuoti. Forse, addirittura, la sciagura e, in qualche modo, imminente. Intrinseca. Promana dai quadri come una sorta di luce endogena. Risuona come una musica sorda di sottofondo, come un basso continuo che insegue stancamente lente, ammalianti melodie in do minore. Oppure tutto è già stato, tutto è già accaduto, e quello a cui assistiamo, quello in cui siamo immersi e quella specie di tempo sospeso, quella sorta di voragine di vuoto e di silenzio che si apre come un abisso dopo un evento irreparabile. Eppure nulla di concreto, di definibile, riconoscibile, campeggia in queste opere che giustifichi tale sensazione strisciante. Certo I'assenza di presenze umane può essere un indizio, un fattore sottilmente perturbante. Ma non può costituire un motivo determinante. E’ una questione, io credo, sottile: di accordi, di vibranti, inquieti rapporti cromatici, di equilibri cangianti tra luci e ombre, d'improvvisi balenii, di riverberi appena accennati, ma inaspettati. E del tono generale. Di un certo 'non so che', che se poi si sapesse che è, non si chiamerebbe 'non so che'. La metafora musicale ci può venire in soccorso: immaginate una melodia gioiosa, squillante, e poi girate quella melodia, la stessa melodia, in chiave minore: gli stessi accordi, la stessa successione di note cambia completamente di senso e provoca diversissime sensazioni. Ecco, quadri di Verena D'Alessandro ci raccontano I'epopea di un paesaggio contemporaneo in do minore.

Virgilio Patarini.


   Aprile 2001

MUTAMENTI SUBURBANI

Mutamenti suburbani: questa mostra, interamente dedicata alla città, (l'autrice vi espone una quindicina di dipinti di dimensioni mediograndi, eseguiti nell'ultimo anno), ben documenta il filone tematico praticato ultimamente da Verena D'Alessandro.
Posta in questi termini, la scelta appare di quelle quasi scontate, vista la fortuna di cui gode attualmente il tema urbano, specie presso i giovani pittori d'immagine. Del resto è assai comprensibile l'aspirazione di un artista a confrontarsi con il contesto fisico-geografico in cui si svolge la propria vicenda esistenziale.
Ma, cominciando ad esaminare con maggiore attenzione i quadri della nostra pittrice, individueremo subìto delle scelte più caratterizzanti. Innanzitutto, ad interessare D'Alessandro non è affatto la città storica, opzione che, in un Paese come l'Italia, ricchissimo dí testimonianze strepitose frutto di una grande civiltà costruttiva, non è affatto scontata e possiede quindi un chiaro significato selettivo.
Vedremo pure che a richiamare la sua curiosità non sono neppure le architetture novecentesche con la loro rigorosa semplificazione dei volumi edilizi, che caratterizzano il volto di tanti contesti di semicentro, e hanno felicemente avocato l'attenzione di alcuni suoi colleghi.
In questi quadri, sono proprio gli scenari contemporanei a tenere banco; e anche i più problematici dal punto di vista formale, i più compromessi da quello urbanistico. Ambiti territoriali fattisi ormai, per così dire, anfibi in una devastazione "a macchia di leopardo": molto spesso, non più campagna e non ancora città. Luoghi dove si protendono perentori viadotti e strade di scorrimento veloce, dove sorgono insediamenti di edilizia intensiva, ipermercati, stazioni di servizio e fast food; lungo i quali si distende la trama speculare delle rotaie dei treni e dei fili dell'elettrificazione.
Ci si può interrogare sulle motivazioni di questa scelta: sarà forse il desiderio di evitare ogni tentazione di maniera e di accostare la contemporaneità su un versante fortemente espressivo; o forse il piacere, che la pittura può offrire, di portare l'ordine dell'arte in un contesto effettuale di disordine e disarmonia; o magari ancora l'ebbrezza di discendenza futurista della città che sale. Di sicuro, la pittrice accosta questa tematica con attitudine non comune: nonostante essa sia fotografa, non si serve del mezzo fotografico per fissare in forma documentaria le inquadrature prescelte, da rielaborare poi a studio, in modo più o meno fedele, più o meno depurate di particolari accessori e ritenuti pleonastici; ovvero, al contrario, da affidare ad una restituzione minuziosa e alquanto raggelante, magari congruente con una poetica iperrealista. Verena D'Alessandro dipinge invece inquadrature fantastiche: i suoi margini metropolitani sono in tutto simili a quelli in cui possiamo imbatterci ogni giorno, attraversando - poniamo - la periferia romana, eppure sono dei non luoghi, delle u-topie. In realtà, questa dimensione immaginaria è serrata stretta dalla realtà fenomenica; condizionata fortemente dalla memoria visiva e dalle innumerevoli immagini di periferia proposteci dai mezzi di comunicazione di massa (non a caso, il nostro è il tempo del bombardamento mediatico dell'immagine, circostanza da cui non è più lecito prescindere). Una dimensione fantastica, da D'Alessandro certo più paventata che agognata, basti pensare alle atmosfere cupe e drammatiche in cui la pittrice quasi sempre ambienta le sue inquadrature (si guardino tele come Tempo nero sull'autostrada, Strada fuori città, Incrocio extraurbano).
L'attitudine che ha ispirato questi dipinti (e lo stesso titolo scelto per la mostra) sembrano quasi avere il sapore di un manuale di sociologia urbana, di un trattato sui processi di trasformazione della città. Impressione rafforzata dalla circostanza che l'artista è stata a lungo docente universitario in una disciplina sociologica.
Ma non ci si lasci fuorviare: D'Alessandro è, quanto meno in questi quadri, perentoriamente pittrice. Stende il colore mediante la spatola con abilità e decisione. Per non attenuare la forza delle sue inquadrature, le lascia deserte, senza spazio per persone e automobili (una scelta, quest'ultima assai meno sorprendente di quanto potrebbe apparire a prima vista, se si pensa che quell'autentico manifesto programmatico della città moderna che sono le celebri assonometrie di Antonio Sant'Elia prescindono anch'esse dalla presenza di uomini e automezzi), ottenendo un effetto straniante, di attesa e di sospensione. In certi casi (Incrocio extraurbano, Strada fuori città, Strade di raccordo) le nubi che gravano il cielo sembrano quasi riflettersi in certe vaste abrasioni biancastre che aggrediscono il suolo; effetti che appartengono non al registro della resa naturalistica, ma a quello del coinvolgimento psicologico dell'artista e dell'osservatore.

Carlo Fabrizio Carli


   Gennaio 2008

LA METAMORFOSI URBANA

Come cercare di dimostrare l'inutilità di organizzare, di teorizzare la città per un artista? I problemi si presentano ogni volta sotto forme diverse, perciò è difficile cercare di mettere ordine, ma soprattutto è inutile. La città nella sua complessità è molto più interessante: la vita è senz'altro maggiore dove c'è i! caos. È l'intervento degli abitanti che fa il centro abitato, l'ordine è solo una minima parte e non spetta di certo all'artista il compito di stabilirlo né tantomeno di farlo rispettare. È la miscela tra caos e ordine. che fa la metropoli, trovare le giuste quantità tra questi due elementi è indispensabile. Sono queste le costanti che emergono in tutti i dipinti di Verena D'Alessandro oltre alla preoccupazione su qual è il destino delle città e qual è dunque il ruolo dell'artista. Il problema dell'arte non sono le facciate, non è la forma, è la vita, è la città che si trasforma, che si modifica col mutare delle abitudini dei cittadini:
Anche la presenza del sogno è importante, ma in quale modo si riesce a far sognare la gente? Forse narrando delle storie, utilizzando delle immagini, la figurazione non è forse il modo più efficace di parlare alla gente? Ci sono delle conflittualità nelle società, nelle metropoli, tanto vale prenderne atto e lavorare con i materiali che si hanno a disposizione, un po' come faceva Venturi negli anni '60, quando invece di rifiutare la Strep di Las Vegas, cercava di spiegarsi il senso che aveva. È a partire da quello che c'è che si lavora. Sia che si tratti di periferia e di centro, il luogo, il contesto è estremamente importante, così come è importante capire le abitudini e tutto quello che la gente ama nelle città. La città dunque, in tutta la sua complessità, con le sue tensioni, le sue contraddizioni, la sua periferia.
Non ci sono solo cose belle nella realtà; e Verena D'Alessandro ne ha preso atto ed ha saputo rappresentare anche la desolazione delle strade di città: la Periferia. Spalanca davanti a noi uno spazio di solitudine che procura angoscia. Ma forse ci suggerisce anche di accettarla e di vivere in essa con consapevolezza la vita di tutti i giorni.. L'artista ha tradotto in versi il dolore di una strada che non si sa dove vada a finire e ne ha fatto la metafora della solitudine dell'uomo. Ha fissato icasticamente nei suoi quadri la stanchezza dell'uomo che non sa più dialogare; ha raffigurato ossessivamente nelle sue tele l'angoscia dell'incomunicabilità. Il paradosso è che in questi quadri, gli edifici, gli sfondi, i particolari contano più dei personaggi – che sono assenti – , perché nella loro inerzia tendono a confondersi con essi, a diventare cose, e quindi scompaiono. Mentre invece le cose, gli edifici, si animano, acquistano una vita propria, sollecitano le nostre riflessioni, ci chiedono attenzione e ci lanciano messaggi criptici. Sta a noi leggerli ed interpretarli correttamente.
La città di Verena D'Alessandro, vuota, offre una visione deserta e straniata della realtà. Le imponenti vedute coniugano passato e presente in una trasfigurazione mitica. La città forse sognata sembra un sito archeologico, oppure una mappa da percorrere con la fantasia, mantiene l'enigma della presenza di edifici industriali dismessi così come gli edifici sovrastanti costringono lo sguardo ad un percorso angusto ed asfissiante. L'assenza dell'uomo ci lascia tuttavia nell'incertezza a riflettere se in queste scene l'artista abbia voluto davvero evocare una realtà dell'oggi, oppure introdurci, nostro malgrado, dentro ad un sogno ad occhi aperti che può suggerirci tante vie di fuga per risolvere la nostra esistenza.
Pur escludendo che l'artista vuole trasferire sulle tele le sue premonizioni sui destini dell'umanità, i suoi quadri, anche soltanto dal punto di vista estetico, rimangono creazioni di valore nelle quali la pittrice più o meno consciamente ha ttasfuso una pluralità di significati.
Ognuno di questi moderni "capricci" sembra scaturire dall'altro e racchiudere dentro di sé il prossimo. E non è davvero un fatto di temi. È semplicemente una questione di pittura, di colore, di densità e dissolvenza, di pennellata che non si cura di occultare i suoi andamenti, anzi sembra volerli enfatizzare. Sono cose che legano, che tengono insieme. Ci sono prevalentemente gialli, ocra, grigi, neri, un po' di celesti, sempre leggeri. E bianchi naturalmente. Ogni angolo riflette la luce che penetra dai cieli, spesso coperti, e definisce le distanze, la profondità delle fitte composizioni d'immagini sovrapposte, che entrano le une nelle altre. Alle spalle dei blocchi edilizi ve ne sono altri che costituiscono la scena metropolitana. Scenari silenziosi e solitari, sottilmente stranianti, sospensivi, infine misteriosi, costituiscono ingredienti immancabili nelle tele di Verena D'Alessandro. Queste attese cósì ricche di tensione sono espresse con un'intensità tale da rapire lo spettatore.
L'artista non ha rappresentato una città secondo i canoni tradizionali, non ha giocato Con i contrasti cromatici, né ha optato per un'univocità semantica, eppure senza alcuna retorica ha saputo evocare un monito, in maniera assolutamente originale.
Queste visioni ci richiama alla mente, inevitabilmente, l'enigma metafisico delle piazze di Giorgio de Chirico e ci porta a concludere il nostro percorso proprio evocando quelle stesse sensazioni introdotte nell'arte quasi un secolo fa. De Chirico ha colto il rinnovamento profondo introdotto nell'arte internazionale del Novecento mantenendo un ruolo di primaria importanza. Non c'è dubbio che in lui si possono sintetizzare le qualità del visionario, ed anche del primitivo, inteso appunto come colui che ricerca alle fonti della cultura e della propria origine quella indispensabile per elaborare un'arte nuova e originale.
Verena D'Alessandro esprime una sospensione equilibrata e discreta, lavora chiusa nello studio, insegue le proprie idee, il pensiero creativo ed i propri sogni: ha ideato queste sue tele come una spontanea sequenza, come tanti fotogrammi che si susseguono gli uni agli altri sulla pellicola impressionata della mente. Ciascuno di essi, a ben vedere, racchiude, dietro l'immagine, gli elementi di una narrazione che spetta all'osservatore, in un ideale rapporto di complicità con la pittrice, di decifrare e risolvere: la metamorfosi urbana.

  Roberto Savi

  Gennaio 2007

METAFORE DEL POSTMODERNO

I soggetti prediletti da Verena D'Alessandro so no catturati dal mondo reale ma non sono realistici. Persone che transitano, stanno, leggo­no, siedono, camminano sole o con altre: ad uno sguardo superficiale potrebbero evocare un'im­magine tranquillizzante e consuetudinaria della società. Ma è un'illusione: sotto una visione vo­lutamente impressionistica ed una stesura pitto­rica veloce data perlopiù a larghi colpi di spato­la, si cela una descrizione fortemente critica del vivere contemporaneo.
Dalle diverse scene raffigurate traspare un tema ricorrente: la serialità e l'omologazione delle mo­de e degli stili di vita quotidiani. Le Metafore so­no così icone visive che intrecciano sguardo e memoria e che raffigurano e cristallizzano em­blematicamente alcuni tipici aspetti moderni. Le immagini e i titoli dati alle opere sono spesso po­lisemici ed è con questa ambiguità che la pittrice gioca; dal loro accostamente emerge un amaro umorismo ed un'ironia temperante, dovuta forse alle due anime dell'artista, quella mitteleuropea e quella mediterranea, in ribollente miscuglio. Da questa duplice appartenenza crediamo nasca non solo la poetica ma anche il peculiare stile pittorico della D'Alessandro: talvolta aggressive spatolate stese con sicurezza su tela e tavola ed una caparbia cura di alcuni particolari apparen­temente insignificanti, lasciati ad una visione spesso, più che sensorialmente percepita, allusi­va e subliminare.
Evidenti e ben metabolizzate le radici fotografi­che dell'autrice: una felice 'deformazione profes­sionale' che le consente di comporre con abilità spazi e ritmi, forme e vuoti, linee di fuga e primi piani, spesso ripresi da punti di vista inconsueti. Così nel quadro Movimento nascente il giova­ne controtendenza con i capelli al vento che spic­ca dalla folla uniforme, è deliberatamente il solo elemento nitido in tutto il quadro: un curioso ed efficace effetto simile alla ripresa con teleobiet­tivo a specchio dalla messa a fuoco fortemente selettiva. O come nella tela All'alba e al tra­monto dove le sagome dei passeggeri del tram -unici elementi in controluce - sono ritratte come ombre e vaghe presenze, quasi fossero, più che persone, anime erranti. E ancora, nel dipinto Folla solitaria dove la D'Alessandro percuote, più che dipinge, la tela con nervose stesure di spatola creando un popolo di figure in transito, immerse in un'inquietante atmosfera grigioghiac­cio di uno di quei tanti non-luoghi metropolita­ni.
Curiosi e suggestivi, dicevamo, anche i punti di vista con cui sono ritratti alcuni soggetti. Nella grande tela a dittico Multipli il codice della mo­da giovanile - jeans e scarpe da joggin' - viene proposto attraverso un' inquadratura dall'alto che ricorda certe fotografie pubblicitarie e dove la dinamica del branco è efficacemente raffigurata attraverso una sorta di linguaggio cinesico dei piedi. O nella veduta aerea di una città virtuale, Playstation City, ritratta al crepuscolo nelle sue prime luci innaturali, come se fosse una Las Vegas da videogioco che si sta accendendo e im­mergendo nella vita notturna.
Vi è il rischio, per un artista, di cadere nella ba­nalità confrontandosi con i simulacri della mo­dernità, abbondantemente proposti a partire dalla Pop-Art e dall'Iperrealismo, ma la D'Alessandro ha una poetica tutta sua: più allu­siva ed enigmatica sul piano comunicativo e più di atmosfera ed interpretata sul piano espressivo. I protagonisti della sua opera sono sempre figure-in-azione, estratte e divelte con forza dal­le fugaci sequenze della visione quotidiana, vo­lutamente distanziate da una rappresentazione "più vera del vero" e trasfigurate in una annota­zione, quasi si trattasse di pagine di un taccuino di appunti su alcune categorie del vivere contem­poraneo, filtrate da uno sguardo e da un'impron­ta stilistica fortemente personali.

Giuseppina Ciuffreda

Maggio 2003

Consonanze

testo di Guido Calonghi

Proveniente dall'esperienza fotografica,
Verena D'Alessandro ha raffigurato pittoricamente vari musicisti nel pieno della loro azione. Aiutata da questo mezzo espressivo, che le ha permesso di fermare idealmente l'azione del suonare nel suo più vero significato, la D'Alessandro con la mo­stra Consonanze ha compiuto un inconsue­to "réportage pittorico" paradossalmente più fedele di quanto avrebbe potuto fare con un apparecchio fotografi­co che musicisti ripresi dal vivo li cristallizza, li immobilizza rubandone dinamicità e spontaneità. La dozzina di quadri nel­l'elegante e discreta gal­leria Le Opere(*), sono un'antologia di perso­naggi legati al mondo della musica classica, jazz, blues. Un'antologia che è anche un gesto d'omaggio ad una delle più nobili attività dell'uo­mo, cioè il fare musica, riconoscendone implici­tamente ben altra funzio­ne che l'intrattenimento ma addirittura - lo si evince dalla cura con la quale le figure dei musicisti sono state descritte - un potere catarti­co, facitore di sogni e di pace dell'anima. Lo conferma il titolo stesso della mostra, appunto Consonanze, nel quale il suono non è elemento secondario ma presenza compartecipante, e pregnante l'opera.
Opponendosi alla riduttiva concezione greca poi cristiano-medioevale e quindi rinasci­mentale secondo la quale la musica era nien­t'altro che techné, cioè abilità manuale, e i musicisti "manovali delle note", Verena D'Alessandro `li vede come uomini comuni che il suonare nobilita e trasfigura. Consapevoli come sono che nel momento in cui fanno musica diventano simili a Dio -in quanto creatori - prima di rientrare nella normalità quotidiana.
Peculiare il gusto compositivo, sentito dall'Autrice come maniera di vedere la realtà ordinandola e seguendo un'esigenza di ritmo e cadenza spaziale. In ciò evidente l'in­flusso del suo primo interesse, la fotografia, nella quale l'immagine non è disgiunta dalla composizione e dal taglio, e la sezione aurea tanto cara ai maestri rinascimentali riceve il massimo rispetto. I colori sono complemen­tari alla descrizione: un cromatismo pieno, vigoroso, passionalmente manifesto per restituire il pathos della musica. Colori mai puri, dati con la sicurezza della spatola ma anche con il cesello delicato e puntiglioso del pennellino che scava nei particolari resti­tuendoci minuzie precise e non pedanti.
Questo pathos lo ritroviamo intatto nei musicisti.
Che dire della nobile solitudine del Suonatore di cornetta? Raccolto sul suo strumento di ottone, gli occhi semichiusi in assoluta concentrazione, l'Autrice ne ha compiutamente raffigurata la fine negritudi­ne nei capelli crespi e nelle bozze frontali ma si è soffermata nella descrizione delle mani che spingono i pistoni dello strumento e il biancore delle nocche ne rivela l'empito trat­tenuto e lo sforzo dosato. Lo stesso potrem­mo dire del Batterista su fondo rosso del quale Verena D'Alessandro ha tralasciato ciò che per lei non era significativo, vale a dire i lineamenti del viso, ed ha invece pola­rizzato l'attenzione sul vibrare potente e rapido delle nervose mani-bacchette, le vere protagoniste del quadro, scegliendo di raffi­gurarle in un bello e dinamico moto, che sarebbe piaciuto a •futuristi come Balla o Boccioni.
Il Violinista è archetipico, compendia tutte le caratteristiche che comunemente vengono attribuite ad un suonatore di questo capriccioso stru­mento: viso sottile e tratti delicati, labbra strette nella concentrazione, sguardo a fuoco su una partitura inesistente ma scorrente nella memoria. Il quadro Dance-party nel suo caldo blu crepuscola­re per il suo inconsueto punto di ripresa ci porta alla mente Edward Hopper (quello dei celebri Nottambuli). L'umanità colta all'ultimo piano di un grattacielo sta ballan­do, chiacchierando e cor­teggiandosi in una luce gialla: tutt'attorno la città indifferente.
Nel Chitarrista "resofo­nico" ci pare che la D'Alessandro abbia rac­chiuso il meglio di questa esposizione: scru­tiamo il viso orgoglioso e doloroso del blue­sman, cappello buttato sulla nuca, viso sfat­to ma occhi vivissimi e neri, quasi febbrici­tanti, persi ad inseguire un sogno di impos­sibile evasione dai "diavoli del blues". Ma subito l'attenzione viene attirata sulla chitar­ra, una splendida resofonica, cioè una chi­tarra con risuonatore centrale, lo strumento vero dei bluesmen veri, della quale una scar­na, nervosa, sensibile, mano, enorme come per effetto di obiettivo grandangolare, pizzi­ca le corde.

Gennaio 2001

 
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